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Leverage, l’acquisto a debito ha valorizzato Rhiag

 
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BeitragVerfasst am: 08.11.2013, 16:18    Titel: Leverage, l’acquisto a debito ha valorizzato Rhiag Antworten mit Zitat

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Leverage, l&rsquo;acquisto a debito ha valorizzato Rhiag e Ducati ma ha affossato Seat e Telecom
QUELLO DELL&rsquo;EX MONOPOLISTA TELEFONICO &Egrave; UN CASO DA MANUALE DI TUTTO CI&Ograve; CHE NON SI DEVE FARE MA IN ALTRE OCCASIONI GLI LBO HANNO FUNZIONATO BENE. moncler IL SEGRETO &Egrave; AVERE UN PIANO INDUSTRIALE
Giovanni Pons
Milano S ono passati circa 25 anni dal primo leverage buy out italiano, quello degli yacht Riva nel lontano 1988, e 14 dalla famosa Opa da 100 mila miliardi di lire lanciata dai Capitani coraggiosi di Roberto Colaninno su Telecom Italia, i cui riflessi si sentono ancor oggi. moncler kids outlet E fino al 2008 tutto &egrave; filato liscio come l&rsquo;olio, i Lbo (Leveraged buyout) cio&egrave; acquisizioni finanziate con il debito - erano considerate operazioni salutari in grado di dare quel dinamismo al mercato del controllo societario che in Italia era ingessato da una centenaria tradizione di capitalismo famigliare. moncler jackets Poi per&ograve; sono arrivati cinque anni di crisi (2008-2013) e d&rsquo;un colpo la sbornia ha dovuto essere smaltita, non senza effetti collaterali. moncler man Alcune operazioni di private equity riguardanti aziende italiane effettuate nel 2005-2007 a prezzi folli, con utilizzo della leva fino a 8-10 volte l&rsquo;Ebitda (il margine operativo lordo) si sono schiantate, altre sono andate in crisi. moncler womens jackets Imprese come Castelgarden (tosaerba) e Ferretti (yacht) sono state costrette a consegnare le chiavi delle rispettive aziende in mano ai creditori per affrontare dolorose ristrutturazioni del debito. moncler outlet online Quando funziona il private equity si pu&ograve; dire che rappresenti una sorta di manna dal cielo, uno schema dove in nome di una maggiore contendibilit&agrave; del controllo e una migliore gestione delle aziende &ldquo;target&rdquo; tutti traggono un beneficio: coloro che effettuano le operazioni, le banche che prestano i soldi, gli studi di avvocati che montano gli schemi giuridici, le banche d&rsquo;affari che collocano i prodotti di capital market, i consulenti che preparano i piani industriali fino ai manager che partecipano anche in proprio alla creazione di valore delle aziende rese pi&ugrave; efficienti sotto la loro influenza. Chi non ricorda il primo caso eclatante di un manager, Lorenzo Pellicioli, allora ad della Seat, che in seguito alla fusione con Tin.it (valutate entrambe 40 mila miliardi di lire), riusc&igrave; a guadagnare 167 miliardi diventando uno dei paperoni d&rsquo;Italia? Ora il meccanismo si &egrave; incrinato, e si sta realizzando una selezione darwiniana tra gli operatori del settore. Qualcuno comincia a domandarsi se le operazioni a leva spinta siano veramente salutari per il sistema economico, o se invece non contribuiscano ad affossare le aziende arricchendo solo chi ha incassato e se ne &egrave; uscito per tempo. Come sostiene l&rsquo;avvocato Paolo Carri&egrave;re, professore in Bocconi, l&rsquo;operazione di leverage che finisce male pu&ograve; essere vista come il pagamento anticipato di un prezzo a chi vende da parte della stessa azienda che poi non riesce a sopportare un tale gravame finanziario e alla fine entra in crisi. &laquo;Nell&rsquo;ipotesi, oramai purtroppo sempre pi&ugrave; frequente, in cui le iniziali proiezioni di sostenibilit&agrave; finanziaria si rivelino a posteriori fallaci, pu&ograve; apparire improprio ed iniquo scaricarne l&rsquo;effetto sugli stakeholders, lasciando invece sostanzialmente indenne chi ha concepito l&rsquo;operazione e chi ha monetizzato per tempo quel valore dimostratosi poi inesistente&raquo;. Prosegue ancora Carri&egrave;re: &laquo;Ove anche si ritenga opportuno, nell&rsquo;ambito di tali operazioni, consentire una &ldquo;scommessa&rdquo; sulla redditivit&agrave; futura dell&rsquo;impresa e a fronte di ci&ograve; ammettere l&rsquo;anticipata monetizzazione di quel valore a favore del socio uscente e a carico della societ&agrave;, parrebbe giusto e doveroso che se poi la &ldquo;scommessa&rdquo; non si rivela - per qualsiasi ragione - azzeccata, a perderci non siano l&rsquo;impresa e i suoi innocenti stakeholders: dipendenti, fornitori, creditori&raquo;. A questo punto, &egrave; bene fare un passo indietro e cercare di capire quali sono gli ingredienti di un leverage virtuoso e viceversa. Parlando con diversi operatori del settore (quasi tutti diventati ricchi con le operazioni degli anni &rsquo;80 e &rsquo;90) la base del successo dovrebbe partire da un&rsquo;idea industriale forte e non dalla finanza. &laquo;&Egrave; un mestiere industriale: il management, i mercati e i prodotti sono fondamentali - spiega Paolo Colonna, Presidente di Permira Associati - si fanno i soldi soltanto se si azzeccano le scelte industriali. Per poter vendere a qualcuno che paga tanto occorre costruire un&rsquo;azienda forte, con crescita dimostrata e investimenti. Per i fondi di Permira il capital gain viene per 76-77% da un aumento dell&rsquo;Ebitda, per il 15% dal leverage e per l&rsquo;8% da un aumento del multiplo di uscita&raquo;. Secondo lo schema &ldquo;virtuoso&rdquo;, dunque, il business plan dovrebbe partire dal cash flow necessario all&rsquo;azienda per finanziare la crescita, sia interna che esterna, aggiungerci una riserva e solo la parte rimanente dedicarla al pagamento del debito che diventerebbe cos&igrave; una variabile residuale. Ma soprattutto, quando le cose si mettono male, i private equity devono essere disposti a ricapitalizzare riequilibrando il rapporto di indebitamento. &laquo;Il private equity ha svolto un ruolo trainante per il sistema economico negli ultimi quindici anni poich&eacute; ha immesso capitali freschi nelle aziende - sostiene Eugenio Morpurgo, ad di Fineurop Soditic - occorre per&ograve; un progetto industriale solido, una porzione pi&ugrave; elevata di equity rispetto al passato e poi i fondi devono essere disposti a ricapitalizzare quando necessario&raquo;. Purtroppo non sempre in Italia &egrave; stato utilizzato questo schema virtuoso, anzi in molti casi la leva finanziaria &egrave; stata pompata dentro le aziende senza alcun criterio e alcune rischiano di morire proprio a causa di ci&ograve;. Il caso pi&ugrave; eclatante &egrave; quello di Telecom Italia seguito a ruota da Seat, entrambi passati alla storia per un livello molto &ldquo;spinto&rdquo; di estrazione di valore. La scalata a debito di Colaninno e Gnutti e di tutta la razza padana non era corroborata da un&rsquo;idea industriale forte oltre ad avere il fiato corto sul fronte finanziario. Basti ricordare che l&rsquo;Olivetti dovette vendere Omnitel alla Mannesmann per finanziare l&rsquo;Opa sul 100% del capitale, Opa che ha fatto contenti gli azionisti e il mercato ma dal giorno successivo ha caricato a monte dell&rsquo;azienda una quantit&agrave; di debito tale da finire per schiacciarla. &Egrave; stato calcolato che in 14 anni sono defluiti da Telecom circa 60 miliardi euro, di cui 20 miliardi agli azionisti sotto forma di dividendi, 25 di maggiori debiti arrivati con la fusione Olivetti, e altri 15 miliardi per pagare le minoranze al momento della fusione con Tim. Di questi 60 miliardi circa 20 sono stati recuperati vendendo aziende del gruppo, quindi riducendo il perimetro industriale dell&rsquo;impresa. Il fatto grave &egrave; che nessuno degli azionisti, nemmeno Telefonica che ora l&rsquo;ha presa in carico, ha mai avuto la buona idea di ricapitalizzarla. Anzi, si vuole procedere a un ulteriore &ldquo;spolpamento&rdquo; vendendo le ricche partecipazioni sudamericane. A Seat &egrave; andata ancora peggio, valeva 40 miliardi in Borsa all&rsquo;epoca della fusione con Tin.it e oggi, in seguito a scelte industriali e manageriali sempre rivelatisi sbagliate in aggiunta a un&rsquo;opera di spolpamento clamorosa da parte di fondi, banche d&rsquo;affari, avvocati e consulenti, la societ&agrave; ha chiesto il concordato preventivo e in Borsa il suo valore &egrave; sceso a soli 34 milioni. Per fortuna il private equity all&rsquo;italiana non ha prodotto solo scempi ma anche numerosi esempi di successo, di aziende passate di mano, cresciute e poi rivendute a prezzi pi&ugrave; elevati anche a gruppi industriali dalle spalle solide. Si va dalla Galbani dei primi anni Duemila, finita alla francese Lactalis dopo il leverage di Bc Partners, alla Ducati recentemente confluita nella pancia della Audi. Ma anche casi di aziende i cui private equity che le hanno acquisite non si sono fatti spaventare dal periodo di crisi, hanno creduto nel progetto industriale, inserito nuovo management e le hanno ricapitalizzate come &egrave; successo a Valentino e Marazzi nel 2009-2010. La prima &egrave; stata venduta nel 2012 ai fondi del Qatar a un multiplo di 25 volte l&rsquo;Ebitda, che allora sembrava folle ma che sui risultati del 2013 appare invece basso, a riprova del buon lavoro industriale compiuto. La seconda dopo aver investito in Usa, in Russia e a Sassuolo nel marzo 2013 &egrave; stata ceduta a Mohawk Industries che ha riconosciuto Marazzi centro di eccellenza mondiale, valorizzandola 1,17 miliardi di euro. La cronaca di questi giorni ha poi visto il passaggio della Rhiag, azienda di ricambi per auto, rilanciata attraverso un&rsquo;opera manageriale di sviluppo e crescita durata sei anni, ceduta dai fondi Alpha ai fondi Apax con notevole crescita di valore (da 300 a 560 milioni circa). Oppure gli annunci di prossimi sbarchi in Borsa per Moncler e Sisal, anch&rsquo;esse possedute da tempo e rivitalizzate grazie all&rsquo;apporto di fondi come Carlyle e Clessidra. La dura selezione del mercato dir&agrave; a breve quali brand di private equity sopravviveranno in Italia, ma la verifica &egrave; semplice: chi riuscir&agrave; a raccogliere nuove risorse dagli investitori potendo mostrare un rendimento interessante sar&agrave; vincente. Il primo Lbo italiano &egrave; stato 25 anni fa, sugli yacht Riva GLI INGREDIENTI DI UN&rsquo;OPERAZIONE VIRTUOSA Secondo Paolo Colonna, presidente di Permira associati, si fanno i soldi solo se si azzeccano le scelte industriali
(21 ottobre 2013)
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